Tupperware

Mi aggrediscono i Tupperware, grandi, piccoli, medi, con o senza coperchi, tutti contro. Sono giorni che accade, che si ripete la stessa identica slavina di plastica. Apro la dispensa e giù i contenitori. Ne paro uno e mi sfugge l’altro, incastro una coppetta e mi cade sul piede un coperchio, salvo quello di vetro ma rotola giù quello in silicone.

E mica mi metto a fare ordine, no rimando a domani, con la presunzione di chi crede di saper gestire anche questo precipitare. Mi faccio oltrepassare senza foro d’entrata, senza foro d’uscita. Pensavo bastassero le mani a difendermi. Mani fermissime le mie a parare le parole infette dei bambini, a fare specchio riflesso con quelle sordide dei grandi. Pensavo bastasse chiudere gli occhi e contare fino a dieci. Pensavo bastasse danzare.

Che bravo che sono, mi dico. Bravo a trattenere gli starnuti, o la cacca per giorni, o a contare fino a dieci e i suoi multipli, e a dormire composto, e a separare la carta dalla plastica, e a pagare il prezzo di non essere figlio voluto e scelto da chi non merita neppure il suono della parola padre.

Chi sono? Quello che sorride educatamente o quello che paga una psicologa per lavare il tanfo di DNA? Quale rancore parla di me più di quanto facciano i miei gesti? Da quale fondo scalpito? Perché tutti i miei fondi si somigliano? Perché non mi faccio Tupperware? Cosa mi impedisce di contenere?

L’epica dei nongiovani

Diana Nyad

C’è una storia che può essere scritta solo in età matura, da vecchi. Cioè in quel tratto della vita in cui inizi a confondere i nomi dei parenti, quando la pelle delle braccia svolazza come una mantovana delle tende, quando ti svegli all’alba pimpante dopo solo tre ore di sonno e una vescica piena come uno scaldabagno. È così.

Nella danza, ad esempio, – l’arte in cui vogliono farti credere che a 29 anni sei da buttare – la storia di Luciana Savignano è una lezione di genio, resistenza e armonia. Era già una fuoriclasse da giovane, eppure dopo i cinquant’anni penso sia diventata di una bellezza estrema, assoluta, vertiginosa. Con la saggezza del suo corpo che danza ha toccato livelli d’arte mai raggiunti prima.

Nel nuoto c’è una donna che ha fatto la storia: Diana Nyad. Ha fatto una cosa indescrivibile a 63 anni. Esiste un’autobiografia, Find a Way, il film invece è Oltre l’oceano con Annette Bening e una meravigliosa Jodie Foster. L’ho visto ieri su Netflix e ho pianto per due ore. Pianto di gioia ovviamente, e di bellezza. Non aggiungo altro per non fare spoiler.

Pare che il grande Messner si fece l’Everest senza ossigeno da giovane ma solo in età matura ebbe la lucidità e la resistenza psicologica per affrontare il deserto bianco e infinito dell’Antartide. Accogliendo il Vuoto. Del resto, il cervello è un muscolo che risponde a logiche diverse rispetto a quelle di un quadricipite. E grazie a dio che è così.

Penso a quella svitata di Marina Abramović. Con il corpo ha fatto cose estreme. Ma solo in età matura ha retto la violenza, la verità, l’assoluto disarmo del ‘semplice’ guardarsi negli occhi per ore e ore senza fare null’altro.

Poi penso a mia madre. Dopo i 60 anni ha cominciato a vivere. Si è buttata alle spalle le violenze subite, le ingiustizie. Da sola, ha ricomprato la nostra casa andata perduta, ci ha fatti laureare ed è diventata mamma di un gatto che ha chiamato Clint (un nome che pensavamo fosse un omaggio al pittore Klimt invece no. Clint come Clint Eastwood… insomma omaggio ai pistoleri). Si fa portare al mare anche d’inverno perché vista blu la colazione è più buona, fa Zumba con le trainers di youtube, ha comprato un giradischi nuovo per ascoltare Barry White e Mina, ha imparato a farsi i selfie, scarica ricette dai blog, legge in media quattro libri al mese ma soprattutto ha un talento naturale nel gestire le emergenze. Le mie e non solo. Che dire… è stata la donna più ansiosa del mondo, (la stessa che mi metteva i pesi nello zaino per paura che il vento mi portasse via seppure io fossi un bimbo in evidente sovrappeso…) e ora, a 74 anni, mi dice con irritante tono Zen che non devo avere ansia, che come dice Baglioni la vita è adesso, che bisogna godere il presente. Ecco.

Insomma, pare che invecchiare non sia solo perdere qualcosa, lo dicono le neuroscience. Invecchiare non è una somma di test di velocità, non è una condizione che si misura con la continua comparazione (estenuante e frustrante) con quello che eravamo e neppure con quello che saremo. Invecchiare forse è saper iniziare qualcosa di nuovo. E se abbiamo costruito una rete di consapevolezza solida, questo nuovo davanti a noi può essere davvero sorprendente.

Sto cominciando a crederlo anche io.

Centrini

C’è una scatola da trasloco in un mobiletto sotto chiave in camera di mamma. È stata proprio mamma a indicarmelo. Le ho detto che volevo cercare una foto di nonna. Ma non una di quelle solite in cui era in posa per i suoi compleanni o in quelle feste orrende alle quali ci obbligava a presenziare. Una foto diversa, che so io, una da giovane al mare o in campagna. 

Ne ho scelta una in posa durante un suo compleanno. 

Con lei c’è mia sorella che in questa foto compie un anno. Sono nate lo stesso giorno. Mi piace pensare che qualcosa di nonna sia migrato in mia sorella. Qualcosa. Un sguardo di disapprovazione, un impeto di forza, un colpo di reni quando tutto sembra perduto, un retaggio ancestrale di aggressività. L’anno scorso, durante un evento, un noto opinionista tivù fece una battuta poco felice su di me. Io non me ne ero neppure accorto, e comunque ne ho sentite abbastanza da non scompormi. Mi accorsi che qualcosa non andava dal fatto che nel pubblico lei, mia sorella, non stava ferma. Si dimenava furiosa come se sulla sedia ci fosse fuoco. Mi sembrò di vedere nonna.

Quando qualcosa non gira nel modo giusto, quando la sto tirando per le lunghe nel prendere una decisione penso a come avrebbe agito nonna. Con velocità, assertività, senza falsi moralismi. Se doveva tirare una ciabatta non stava lì a farsi troppi calcoli. Mirava e sganciava il siluro, il più delle volte, colpiva il bersaglio, uno scarafaggio o me. 

La velocità con la quale arrivava alla valutazione era assoluta. La merda è merda e poche storie. Non ci sono tanti discorsi da fare in merito. “Quella è una troia,” diceva. Che fosse una persona vera o la cattiva di La donna del Mistero, poco importava. Che poi che differenza c’è tra le telenovelas e la vita vera? Forse le prime sono meno assurde?

Nonna a 26 anni era già vedova del secondo marito. Due uomini morti per incidenti sul lavoro. Morti senza essere malati, nel fiore della loro giovinezza. È  rimasta sola con 5 figli, la più grande di 9 anni o giù di lì. C’era poco da lagnarsi, poteva impazzire e invece la capacità di decidere l’ha salvata. Ha salvato tutti. Forse ha preso decisioni che oggi riterremmo crudeli, forse no. Qualcosa della guerra appena finita le si è piantata sulla pelle come un callo. Come una specie di saggezza inconsapevole, quella di chi è scampato al peggio. Un intuito nel sapere come, dove, quando trovare riparo. E vivere. Non le ho mai sentito pronunciare una frase dubitativa, un “dipende…” neppure per sbaglio. 

E a me, cosa ha lasciato nonna?

Alcune cose tremende e affascinanti le sto scoprendo grazie alla mia terapeuta la quale ha intuito che nel mio dolore c’era un tratto non direttamente mio ma transgenerazionale, un’eredità che viene da lontano. Un dolore indiretto da capire, da accogliere. E magari da risolvere un giorno chissà, e non solo per me. Da risolvere anche per la mia famiglia che attraverso me può ingranare una nuova marcia, scrivere un nuovo finale.

L’altra cosa che ho ereditario da nonna e la meditazione. Nonna lavorava all’uncinetto ininterrottamente, ipnoticamente. I suoi centrini sono mandala, architetture di nodi bianchi. Centrature perfette, labirinti di filo di cotone. Lei sferragliava inverno ed estate. Fino a tardi. Tutti i giorni. Quello cos’è se non meditare? Questo avrò preso da lei.

Oggi avrebbe compiuto 100 anni. Durante la pandemia più volte ho provato gratitudine per il fatto che fosse morta prima. Si è evitata questa ennesima merda. Per anni il giorno del compleanno di nonna era il giorno della festa. Tutti obbligati ad andare a casa sua a mangiare panzarotti fritti e la torta. Se mostravi segni di insofferenza te lo faceva pesare. Ci andavo controvoglia. Le famiglie perfette dei miei cugini facevano sembrare noi tre degli extraterrestri. Quando alla fine svoltavamo l’angolo di casa sua e ci vedeva arrivare lei schiudeva un sorriso che ci ripagava di tutto. L’importante era vederci. Le cose non è necessario che si capiscano subito.

Dopo la sua morte non c’è stata più nessuna voglia di incontrarsi e fare festa. Ognuno ha preso la sua strada. Nessuno dei nostri nodi ha retto la sua assenza. Solo i centrini sono ancora lì. Compatti, inamidati, a sostenere vecchie fotografie. E oggi mi ritrovo ad avere quasi nostalgia di quelle feste sotto minaccia. Perché ora c’è proprio bisogno di qualcuno che sappia indicarci un riparo, che sappia tenere insieme, che ci dica, senza troppe seghe mentali, cosa è giusto e cosa no.

Salvezza ed elementi di biomeccanica

Foto di Matilde Giustiniani, spettacolo Kintsugi di Giovanna Belloni

Se sposto il baricentro verso la mia testa (la mente), tengo fissi i talloni al suolo – come incollati – e immagino la mia colonna come una corda che tiene attivamente lontani questi due punti, allora creerò visivamente una diagonale. Se arrivo a questa diagonale gradualmente, proverò un dolce senso di abbandono. “Mi sto lasciando andare, non so ancora verso chi e verso cosa”.

Poi potrei potenzialmente finire per terra assecondando la forza di gravità che, man mano che la diagonale tenderà all’orizzontale, sentirò sempre più come irreparabile, fino al punto di catastrofe – la caduta. Se improvvisamente un altro corpo ponesse una forza sul mio in direzione contraria, il mio percorso verrebbe modificato. Mi sentirei rallentato se la forza del nuovo corpo fosse inferiore a quella esercitata dal mio peso, bloccato se superiore.

Sentirmi salvato è bello anche se la mia parte istintiva tende a dirmi “metti le mani avanti!” Ultima cosa importante: il punto di contatto. In quale punto del mio corpo sta esercitando resistenza il nuovo corpo? Al centro del petto, in zona chakra del cuore? Bene, sono davvero salvo! Sarebbe stato lo stesso se le sue mani si fossero poggiate su un lato del mio corpo lontano dal centro?  (Per es. spalla destra). Quel punto di contatto forse sarebbe diventato un perno intorno al quale far ruotare il mio lato libero. Così da un contatto avrei generato un movimento di torsione a spirale. Forte eh?

Mangiafiori

Dal finestrino del frecciarossa Lecce/Milano

Dal treno una prateria giallo limone sotto un cielo che minaccia. Da piccolo mordevo il gambo di quei fiori gialli. Un gambo liscio, lucido e croccante. Succhiavo il succo aspro, che mi faceva rabbrividire come fa troppo aceto nell’insalata. Quel fiore lo chiamavo acetello infatti.

Non era l’unico fiore che mangiavo. In primavera c’erano certe campanule viola che avevano sui petali una delicata peluria bianca. Sapevano di zucchero, le chiamavo zuccherini.

Il treno corre e io di schiena, contrario al senso di marcia. Occhi verso casa. So che fino a Bari sono dolori, guardo da dentro una crepa. Non trattengo nulla. Aspro vedere la mia città farsi piccola all’orizzonte. Potessi piangere anche dalle orecchie anche dalla bocca, lo farei. Piango come posso. Ospito quello che c’è in questa giara scricchiolante che sono diventato, lascio il posto a quello che provo mentre cammino all’indietro. Penso che la distanza dalla mia famiglia sia una violenza. Poi penso che ho scelto, che abbiamo scelto, penso che tutto questo lo penso ogni volta che parto, penso che tutte le volte ho l’impressione che sia insostenibile, penso che poi tutte le volte da questo dolore riemergo, seppure lo strappo faccia male, sempre di più.

Lo dovevo capire quando nonna ci salutava il giorno della partenza. Ogni anno stava peggio. “Dai, nonna non fare così, ci vediamo a Natale!”

C’è un senso di sconfitta ed eroismo. Vorrei contenere tutto quello che amo, ma non riesco. Ma è già eroico il miracolo dell’amore, potrei anche decidere di farmelo bastare.

Mangerei ancora fiori, perché facciano nuovi fiori, dentro. Dove i semi trovano crepe fanno casa. E, al riparo, germogli.

“Dai, Davide non fare così, la primavera è quasi dietro l’angolo!”

Ricchezza

Oro del Ginko, dal mio I-Phone

Sentirsi un uomo ricco, nell’oro dei Ginko di via Piccinni che di notte sembrano mimose ma è impossibile che siano mimose perché è dicembre.

Mi sento ricco all’angolo di viale Abruzzi mentre acchiappo una foglia un secondo prima che tocchi l’asfalto.

Dico grazie all’albero, osservo la foglia, la capovolgo e penso alla danza dei dervisci.

La ricchezza è nello stupore, nel non sapere, nell’accorgermi che quel poco che ho nasce dalla gentilezza. E sembra un patrimonio.

Nonostante tutto. Nonostante Milano.

Esaudire i sogni

Sogni, eterna salita.
Foto mia, Milano, casa di zia Fausta.

Marco è un mio compagno del 2 anno della Scuola Holden. Un pomeriggio del mese scorso passa da Milano e mi regala un libro. In realtà me ne regala tre ma per ora ne ho letto solo uno.

Mi dice che questo libro ha a che fare con me. Penso che tutti i libri che ci capitano hanno a che fare con noi. Sia quelli belli, sia quelli brutti.

Lo leggo e a un certo punto: “…e penso che puttana miseria, e ora basta sognare, Pasquale, perché a non esaudirli mai i sogni invecchiano e muoiono, e quando muoiono i sogni, poi muori anche te!” (L’estate infinita, #edoardonesi )

SBAM! Colpito e affondato, quanto è vertiginosa la strada per arrivare a realizzare un sogno? I sogni che si realizzano sono davvero sogni o semplicemente progetti? È solo questione di determinazione, carattere, impegno o c’è una bella componente di Karma o Kulo? Forse c’è chi realizza inanellando vittorie e chi collezionando sconfitte. Io realizzo con le sconfitte.

Da bambino sognavo di danzare. Fino a 15 anni è stato un NO. Non puoi, non sei capace, non c’è scuola in paese, è una cosa da femmine. E quando tutto sembrava ormai perduto, quando tutti i No avevano fatto a pezzi la fiducia in me stesso, allora si è aperto uno spiraglio.

E a pensarci bene è stato così per tutto il resto che ho sognato. Tutto è passato attraverso il gorgo dei NO e tramite una salita lunghissima e faticosissima.

Ad oggi, i miei sogni si sono realizzati un secondo prima di invecchiare. Si sono realizzati in ammollo nella sfiducia attraverso colpi di stato, o di reni. Hanno quasi sempre schivato la morte, per un soffio… questo toglie qualcosa alla loro bellezza? Inizio a pensare, ma è difficilissimo ammetterlo, che forse tutte queste difficoltà ne hanno intensificato la bellezza, l’autenticità. Sono i miei sogni. E funzionano così “puttana miseria”!

Ieri, dopo quasi due mesi di blocco, ho ripreso a scrivere. Sono alla quinta riscrittura. Riscrittura non correzione. Riscrittura proprio riscrittura. Quando un giorno SCIMMIA il mio primo romanzo sarà finito (perché un giorno questo accadrà) capirò forse il senso di questa indescrivibile fatica ad esaudire.

Il senso di questo interminabile salire.

Talea

(Non trovo l’autore della foto)

Conto i passi con la stessa trepidazione di chi sta per raggiungere un luogo preciso su una mappa. Solo che non solo non ho segnato nessun luogo, non ho neppure una mappa.

Avanzo con fiducia. Come se ad aspettarmi ci sia il più grande tesoro mai scoperto.

Mi espando con la pazienza di una talea. Una talea di potos messa in acqua a fare radici. Dagli snodi del mio corpo, dalle asperità più fastidiose, dai tagli, proprio da lì, nascono nuove arterie.

Dai nodi nascono radici. E anche dalle cesure, non tutte però. Bisogna imparare ad abbandonare la pianta madre. Staccarsi, recidersi ma stando attenti ad includere almeno un grande nodo. Senza nodo non si cresce.

Spuntano radici, radici delle radici, radici delle radici delle radici. L’acqua le fa fluttuare e fluttuando crescono. Mi radico nella sostanza fluida, nella trasparenza.

Ci siamo già passati tutti. Quando rinascerò, avrò la premura di iniziare la nuova vita facendo esplodere una risata? Nascere ridendo, chissà cosa penserebbe un’ostetrica nel vedere un neonato che viene al mondo ridendo a crepapelle.

Sono talea coraggiosa e arrabbiata. Sono quello che sono. Espongo tutto alla luce del sole. Dentro e fuori, sotto e sopra. Senza distrarmi.

La distrazione, in ogni su forma, non è mai innocente. Conto i passi. Passano i giorni. Mi commuovo se vedo una fotografia della terra da un satellite. Mi commuove pensare che ho due gambe. Mi commuovo pensando che si può provare gratitudine per un bicchiere d’acqua.

Tendo le mani verso il soffitto i piedi nell’acqua. Posso vivere anche senza terriccio.

Si può vivere in condizioni inimmaginabili.

Ospitalità

Milano, casa della Memoria

Ieri sera, uscendo dalla Casa della Memoria, mi è sembrato di vedere Milano con una lente nuova. Come se avessi tolto dagli occhi uno strato di pellicola sottilissima per vedere in modo più nitido.

Su un lato, dietro le torri del bosco verticale, il cielo si era fatto dello stesso colore dell’imbarazzo e, dall’altro la luna, di un rosa caldo, era perfettamente al centro dei due grattacieli. Calamitata all’indaco della sera. Un profumo di rosmarino o qualcosa di simile mi ha fatto fermare.

Dov’è finito l’odore di piscio? Mi sono chiesto. È l’effetto di due ore di meditazione o sono semplicemente morto?

Ho fatto un giro su me stesso alla ricerca di una prova di non essere trapassato. Ero vivo. L’ho capito dalla voglia di uccidere che ho provato nel vedere una ragazza sudamericana che si trascinava le sue ciabatte senza alzare i talloni da terra. Non ho ucciso nessuno anzi, ho provato compassione per tutte le ciabatte del mondo. Wow, funziona la meditazione!

Per qualche ora ho ospitato in me tutto quello che ho incontrato, o meglio, quello che sono riuscito a riconoscere. Nel bene e nel male. Ho fatto casa. Mi sono fatto ospitale.

Si arreda anche il cuore, se provi a fare spazio. Una volta aver fatto entrare tutto quello che stavo provando, fastidio, rabbia, paura ecc, mi è sembrato che ognuna di queste sensazioni andasse a prendere un posticino riparato e caldo dentro di me.

Si deve stare davvero bene dentro di me… ho pensato. Le cose che provavo hanno abbassato la voce e, in alcuni momenti, si sono addirittura stancate di bisbigliare.

Ho attraversato Gae Aulenti resistendo alla voglia di affondare i piedi nella pozzanghera della piazza. Ho preso la metropolitana e non ho indossato le cuffie del silenzio. Me ne sono reso conto quando stavo per arrivare a casa.

C’è tutto. Tutto si muove con me. Peso 80 chili. Alcune parti pesano più di altre. L’errore più grande che stavo facendo era quello di scacciare il mio sentire confondendo l’accoglienza con l’attaccamento. Le parti più pesanti mi servono a non perdere l’equilibrio. Pensavo fossero quelle a farlo vacillare. Assurdo!

E invece la prospettiva più adatta a me potrebbe essere un’altra: non si butta via niente. Piuttosto potrei imparare a zippare questo dolore e depotenziarlo. Mi serve, non posso buttarlo via. Devo finire il mio primo romanzo e mi servirà per quelli che verranno. Mi servirà a provare compassione per gli altri, per gli alberi abbattuti, i fiori strappati, gli animali messi in gabbia.

Ieri sera ho provato la tenerezza per Milano che negli ultimi mesi avevo messo in discussione. Milano ha bisogno della mia lentezza, delle mie tane, dei miei silenzi. Milano ha bisogno di chi non vuole vincere niente, di chi non vuole essere il migliore, di chi sa fermarsi, di chi sa dire grazie. Se non ci fossero quelli come me cosa sarebbe questa città? Sarebbe solo un susseguirsi di spintoni, di sguardi evitati, di muoviti cazzo non vedi che è verde, di fotografiamo noi che fotografiamo la fotografia di uno che sta inquadrando con il suo cellulare una ciotola di olive denocciolate. Sarebbe un appuntamento mancato con la bellezza.

Dimmi grazie, Milano! Ho lasciato una delle città più belle d’Italia per stare da te…Sii grata a chi ti sa vedere davvero!

Ho provato a farmi sguardo trasparente per amare i tuoi ottobre.

Lembi

Dal mio iPhone

Sull’agenda ho scritto una cosa come “esci, incontra, non evitare”. È una promessa (o un compito) che sto rispettando con obbedienza. Senza esagerare. Lo sforzo sta tutto nel porre un limite al mio istinto che mi suggerisce di fare il contrario. Ho sempre amato stare in casa. Mamma ci ha educato a mettere il pigiama alle 19:30. Poi chiudeva tutte le finestre di casa e spegneva le luci. Il coprifuoco non era un modo per limitare la nostra libertà, tutt’altro. Da quel momento iniziava la festa. Da quel momento noi eravamo solo noi e nessun altro. Si leggeva, si ballava, si cantava. Fino agli sbadigli. La casa è uno spazio sul quale ho il potere di decidere chi e cosa far entrare. Chi e cosa voglio lasciar andare. E poi posso fare silenzio, ora che finalmente sto capendo cosa vuol dire fare silenzio.

Posso ritagliarmi un angolo per vedere l’alba, per salutare un cane che passa, per veder scomparire un aereo dietro un palazzo. A volte le cornacchie fanno un gran baccano, i piccioni si lasciano scivolare sul tetto spiovente. Sembra che si divertano e ho l’impressione che anche la signora piccola piccola del palazzo di fronte, certi giorni, ne invidi la leggerezza. Dalla mia finestra riesco a scorgere il correre delle nuvole di settembre, i sussulti di un temporale, l’arancio dei passaggi del sole. A volte danzo benissimo a casa. A volte mi sento bellissimo a casa. Mi sento riparato. Aggiustato, riassemblato.

A un certo punto mi sono accorto di non soffrire più come prima. Mentre ieri ha cominciato a piovere, forse è stato lì che ho capito che i lembi di pelle si sono uniti, finalmente. È un bene che sia rimasto un segno. A ricordarmi quanto amore sono in grado di dare. Le cicatrici sono post-it. Mi sono concesso il lusso di perdere. A volte l’unica alternativa che abbiamo davanti alla banalità del comportamento umano, davanti al ritardo emotivo o alla prepotenza è arrendersi. È scappare a gambe levate. Tornare a casa. Ripartire da dentro per riavere occhi nuovi per il fuori. Tutto è impermanente, anche il dolore.

Buttare

Scattata da me, capanno degli attrezzi.

Nel capanno degli attrezzi, in fila ad attendere la “scorniciazione”, si dice così? Come è successo che mia madre abbia declassato i miei quadri preferiti nel tugurio dove tiene la legna? Il primo da sinistra lo ha dipinto lei.

Da piccolo ero convinto fosse un ritratto delle piccole donne della Alcott in una giornata di tramontana. Il secondo lo dipinse un compagno di collegio di mio padre. Il conte Ugolino fitomorfico in un inferno rosso spettrale. Le teste dei suoi figli sono i nodi del suo tronco. Perché uno pensa di essersi liberato delle sue vittime e invece sti cazzi.

Chi hai fatto fuori senza pietà, nel migliore dei casi, ti torna a trovare sotto forma di incubo. Ah si! Ti torna tutto su come un bruciore di stomaco dopo una peperonata, come una macchia d’olio che non va via dalla t-shirt. Bisogna stare attenti al male che si fa! Lo dice Dante, mica lo dico io….

Considerando il fatto che nelle cornici vuote c’erano altri quadri (vai a capire quali!) che mia madre ha coperto o ha fatto fuori nel bidone dell’indifferenziata… mi sembra di capire che i prossimi a essere distrutti sono proprio loro. I miei preferiti. Attendono pazienti il loro turno. Almeno attendono su un muro. Certo non è la parete del salotto ma vabbè…

Adoro la spietata capacità di buttare tutto di mia madre. Vorrei esserne capace anche io. 

Distacco

autore non trovato

Contro-risalendo il cordone ombelicale, da sud-est a Milano, ho scelto le rotaie. Ho sempre avuto paura di volare. Sulle giostre da piccolo chiudevo gli occhi e urlavo fino a perdere la voce. Ora guardo oltre il finestrino del treno, fronte contro il vetro. Nel primo tratto di strada un cimitero di ulivi morti. Mi domando come mai non abbiano deciso di sradicarli, non abbiano deciso di farne legna da ardere. Quest’anno il prezzo del gas è alle stelle. Dovremmo imparare a bruciare.

C’è una pericolosa propensione all’accanimento (o all’attaccamento) nella terra in cui sono nato. Ci tratteniamo ai morti impedendo loro di raccontare cosa sono diventati. A dirla tutta, non ci importa neppure di cosa sono stati, della loro vita. Amiamo le cornici d’argento da spolverare, i fiori di seta, i lumini. Non lasciamo andare. Ci piace rimuginare sulla sconfitta come se questa fosse la più grande prova della nostra esistenza. Ci piace piangere i morti per distrarci dai vivi.

La xylella è un batterio che vive e si riproduce là dove dovrebbe scorrere la linfa. L’ulivo diventa rosso. Come a vergognarsi di essere malato, poi muore. Molti contadini hanno potato i rami morti lasciando solo il tronco centrale e due o tre rami grossi. Sembrano mani di mostri che sbucano dalla terra. Fanno paura. Ho distolto lo guardo da quell’orrore. Perché non ne fanno legna da ardere? Mi ripeto.

Chi si attacca al passato impigrisce il pensiero. I pensieri diventano sempre più piccoli e secchi fino ad atrofizzarsi.

Mentre ero in viaggio pensavo a cosa avrei fatto io del mio uliveto stecchito dal batterio. Forse avrei dipinto gli ulivi di bianco. Forse avrei sradicato gli alberi come i dentisti fanno con i molari. Ma senza anestesia. Forse avrei capovolto le piante così da interrare il tronco e le fronde ed esporre alla luce del sole le radici ripulite dalla terra a cui si aggrappavano.

Non bisogna aver paura di lasciare andare, questo continuo a dirmi. È così difficile lasciare andare il dolore, l’amore tradito, la meschinità. Non sembra umano ma lo è. Sono tornato a Milano con questo obiettivo ben chiaro. Lascia andare. Alza la testa e dichiarati meravigliosamente sconfitto. Bisogna saper perdere. Perdere vuol dire lasciarsi dietro. Seminare e dimenticare. Aspettare l’inverno con la pazienza delle radici, quelle vive. Quelle generose.

Ecco cosa avrei fatto di quegli ulivi: testiere di letti nella campagna. Un materasso, una lampadina appesa a un ramo. Un laboratorio dello sguardo aperto. Per invertire la prospettiva. Svegliarsi vista cielo. Per imparare a pensare pensieri grandi, elastici, cangianti come le nuvole.

Rallentare

Peter Keetman

Frenare o frenarsi? Rallentare o rallentarsi? Questo aver abbassato di colpo i giri del mio motore mi rende fragile. Forse vale la pena farci un pensiero. Porre un freno, diminuire la velocità, rallentare. Cosa ci rallenta?

Un freno, qualcosa che ci blocca. Fuori o dentro di noi? Un crociato da operare rallenta la carriera di una danzatrice o di un danzatore. La rallenta non la blocca. Una bocciatura rallenta la carriera scolastica di uno studente, un guasto tecnico (scegliete voi di che tipo) rallenta il raggiungimento di un obiettivo. Contenere, porre un frena alla dispersione. Quindi concentro. Beh non è sempre qualcosa di negativo. Qualcuno, ad esempio, farebbe bene a frenare la lingua.

Cercare di impedire un moto. Scoraggiare rallenta. E scoraggiarsi anche. L’insicurezza se assume la forma di un costante dubbio su chi siamo e su quanto valiamo, eccome se rallenta. Oppure ci evolve?

La paura (che a volte fa correre) spesso rallenta e in certi casi blocca. La paura di non farcela. “Cazzo, ho 43 anni, non posso ricominciare da zero!”, “Sono troppo vecchia per…”, “troppo solo per…”, “troppo squattrinato per…” La paura di non meritare qualcosa di meglio che se ci pensate è subdola, strisciante (ama travestirsi da altre paure). La lamentela rallenta. In ogni sua forma resta un flagello per chi la pratica e per chi la ascolta. Un ostacolo sul mio cammino mi rallenta ma se mi impegno lo sposto, oppure ci passo a lato schivandolo o, nel caso fosse qualcosa di rimbalzante, mi ci schianto a bomba per generare energia ancora più vitale e magari nuove rotte di gran lunga più avvincenti di quelle tracciate all’inizio del viaggio.

Rallentare per prepararsi alla stasi. Che poi la voce del verbo stare non è così male. Slow motion. Per chi danza è la cosa più difficile, provateci se siete bravi! Prendete un movimento che prima facevate in tre secondi e fatelo in tre minuti. Vi scoprirete vivi. Trovare una misura. Moderare gli animi furiosi. Arginare il flusso. Dire alla mente “taci una buona volta!” Arginare l’ego… Questo mi piace.

Non è poi così male rallentare. Fare il morto a galla se il mare è calmo, chiudi gli occhi e ti puoi allenare alla cosa più difficile al mondo. L’affidamento. L’azione del fidarsi. Rallento. Se sono in auto posso scattare foto più nitide dal finestrino ad esempio. Catturare immagini, accorgermi di altro. Sarà per questo che il fatto di rallentare inquieta così tanto?

Ra ll en to. Ok. Sono pronto a fermarmi, bloccarmi, ad accelerare, a ripartire?

Riparo

foto di Jose Morraja

Non sono mai stato così in disordine. Non sono mai stato così in ordine. In questo ultimo anno ho fatto silenzio. Ho scelto un tipo di silenzio. Sono andato a riparami. Tuttora mi riparo. Mi riparo dalle parole cattive, prima le mie poi quelle degli altri. Mi riparo dai colpi che riconosco. Colpi duri, legnate in piena faccia. Mi riparo dalla stupidità umana. Cerco riparo. Nel silenzio. Nel respiro. Nelle parole della mia analista, di un’amica, di un amico. Riparato sotto la tettoia della compassione. Ho imparato a rivolgermi parole gentili. Ciao Davide, come stai? Non aver paura, mi prenderò cura di te. Mi sono accorto che al riparo di una grotta, vedere la tempesta è una figata. La tempesta è bella.

E poi mi riparo nel senso che mi aggiusto. Mi raccolgo, mi risano. Attraverso il parlare, il sentire, attraverso un’altra scrittura. Quella segreta. Ho scritto quasi cento pagine. Tutte da riscrivere, ovviamente. Ma anche questo vuol dire ripararmi. Togliere il gesso dal cuore. Farlo leggero. Spiegarlo come un lenzuolo. Agitarlo al vento.

Ho addirittura mandato un sms a mio padre. Mi ha anche risposto. Non conta. Conta che io abbia capito la cosa più importante. Esisto, sono luminoso, ho senso anche senza un nemico. Esisto comunque, anche senza nessuno da odiare. E mi piaccio così.

Riparo, riparo questo cuore. Faccio spazio.

A cosa servono i maestri


Ieri, complice l’aria autunnale e l’età che avanza, mentre assistevo alla crisi esistenziale di un mio allievo, ad un certo punto ho avuto un blackout.

Tutto è partito perché volevo trovare le parole giuste per infondergli il coraggio necessario a lottare, ma queste parole giuste non mi venivano.

Allora ho ripensato a me alla sua età. Effettivamente quasi vent’anni fa ero più o meno nella sua stessa condizione. Sentivo che la mia strada era l’arte ma tutto mi remava contro: famiglia, soldi, persone. Ho cercato di visualizzarmi a vent’anni provando a riportare alla memoria ciò che mi ha dato la forza di andare avanti nonostante tutto. E penso di aver capito cosa mi ha aiutato: penso di essermi fidato di alcune persone. Pochi maestri. Tutta quella fiducia che non provavo nei confronti di me stesso l’ho riversata su di loro. L’ho fatto dando valore alle loro parole e alle loro azioni. Un valore totale. Non mi ha salvato il talento (che ancora oggi cerco di decifrare), non mi ha salvato neanche l’intelligenza (spesso è stata un limite). Mi ha salvato la capacità di provare gratitudine. Io sono certo di questo.

Ogni santo giorno per anni ho pensato di mollare tutto per mille motivi (alcuni reali, altri immaginari). Ricordo quelle mattine con due mani alla sbarra in cui avevo un muro di fronte che mi ha permesso di nascondere le lacrime che scendevano ininterrotte (per il dolore fisico, per l’umiliazione di non riuscire, per un senso di inadeguatezza). Ma ricordo anche che mentre scendevano le lacrime le riasciugavo immediatamente. Pensavo che se in quel momento fossero passati quei tre maestri che amavo e mi avessero visto piangere li avrei delusi. Perché loro mi dedicavano del tempo. E il tempo è un offerta preziosa. Di loro mi fidavo.

La prima in assoluto non era solo una maestra ma anche una direttrice, si chiama Susanna. Con un’acrobazia del pensiero, che ancora non mi spiego, ha intravisto in quel Davide qualcosa. E’ stata la prima a usare la parola danza nel riferirsi a me. Come si fa a dimenticarlo! Questa donna è stata impietosa difronte ad alcune mie scelte mediocri, incenerendomi con lo sguardo, massacrandomi con il suo commento. E oggi penso a quanto quell’analisi spietata mi abbia permesso di crescere e darmi una possibilità. Mi abbia caricato di quella rabbia necessaria a dare il meglio per crescere, studiare e non rompere i coglioni (come la mia indole mi porterebbe a fare). Sono grato a quei ceffoni in piena faccia (in senso metaforico) e a quelle gentilezze quasi materne che arrivavano inaspettatamente sotto forma di gesti e di rispetto per la mia persona. Ovviamente mollare mi sembrava una mancanza di rispetto nei suoi confronti.

L’altra figura fondamentale fu Valeria, l’insegnate di recitazione. Oggi ho ancora la fortuna di averla nella mia vita. Non potevo deluderla. Fu perentoria: “dovete rispettare il dono che avete ricevuto!” – ci disse. Più chiaro di così… Non avere rispetto dei doni ricevuti (dalla natura, dalla vita, dalla fortuna, dalle persone) è un’offesa alla vita. Lei ha un vero talento nel motivare le persone con il calore e il colore della sua voce. – “Regalate al mondo la migliore versione di voi!”- ovviamente si riferiva soprattutto alle cacofonie regionali e agli strafalcioni delle nostra parlate… ma c’era qualcosa di più profondo in quella frase (che ho capito da adulto). Ogni maestro mette in conto che in una classe di venti allievi, se tutto va bene, solo la metà di questi un giorno diventerà un artista. Ma passare il messaggio che, qualunque fosse stata la nostra strada, sarebbe stato fondamentale dare la migliore versione di noi è stato il più grande insegnamento. Nel raccontare una favola a nostro figlio, nel vendere un paio di scarpe in negozio, nel rispondere a un call-center, nel traffico, a casa, in amore… cosa conta davvero? Cosa produce i migliori effetti? Cosa genera luce?

La migliore versione di noi.

Non mollare, era un atto di pura fiducia. E di amore verso queste due donne e non solo. Avevo un maestro che si chiama come me, che non aveva certamente una propensione all’affettività, un uomo agli antipodi del motivatore, avulso ad ogni forma di smancerie e tagliente come un coltello di ceramica. Anche per lui non ho mollato. Prima di tutto perché ne ero totalmente innamorato, totalmente. Poi perché aveva la capacità di attivare quella zona del mio emisfero destro dove c’è profondità. E questa capacità mi ha dato la prova concreta che quello che sostenevano le donne citate prima era supportato dalla realtà. C’era in me una profondità (che io non vedevo o non sapevo gestire) che, se attivata nel modo giusto, avrebbe un giorno dato i suoi frutti. Questi frutti si sono visti molto dopo, ma fidarmi di loro mi è servito ad allenare la pazienza.

Avevano ragione. Il mio merito è stato dare valore alle loro parole e provare gratitudine. Questo mi ha portato a concludere gli studi, avviare nuovi studi, tentare mille strade, affinare gli strumenti per diventare un buon maestro, fare errori e cazzate come tutti ma comunque vivere del mestiere dell’artista.

A cosa servono i maestri? A provocare reazioni, a innescare meccanismi generativi, a fare luce, a mettere ordine e disordine con un solo obiettivo: lo sviluppo umano e professionale di un allievo. Il maestro non è un guru seduttivo in cerca di discepoli, né l’infallibile superuomo che ti dice cosa e come fare, non semplifica la realtà, non la banalizza abusando della parola giusto e della parola sbagliato. Il maestro è uno stecco per rendere resistenti i fiori nuovi, il potassio per gli sfiniti, lo spintone che ti fa avanzare di dieci passi, l’ossigeno che passa da finestre sempre aperte, il navigatore satellitare che ti segnala la grande verità: ci sono mille strade e mille tempi per arrivare ad un obiettivo.

Chissà se sono queste le parole giuste.

e poi tornare?

Non so se ho voglia di tornare.

Mi impongo di fare attività fisica. La mia voglia di sudare è pari a zero. Non amo il fitness, lo trovo volgare. Non amo saltellare, non amo seguire trainers ipertrofici che parlano del corpo umano come se fosse un oggetto qualsiasi da mettere nel carrello di Amazon. Il mio corpo è complesso. La gente non ama la complessità. Non amo essere toccato, amo essere attraversato. Non ammetto pacche sulle spalle, nemmeno se bonarie. Schivo le mani degli altri, preferisco essere avvicinato dagli avambracci. Non sono un’acquasantiera, sono una cartina geografica.

Mi impongo di fare attività fisica perché ho paura di morire di colesterolo e per abuso di carboidrati. Sono passato da una media di 24 mila passi al giorno a 70. Sedia, bagno, sedia, divano, bagno, divano, letto. Questo è il mio wellness. Non va bene.

Mi dico muovi il culo e fai qualcosa! Un pò di stretching, pilates, una sbarra di danza classica improvvisata tra un comodino e una sedia… Scelgo lo Yoga. Pensare che quando ero giovanissimo lo odiavo. Lo odiavo perché il dolore che mi provocava mi distraeva dalla pratica. Poi ho trovato i maestri giusti e ho cambiato opinione.

Mi preparo a fare una lezione di Yoga. Forse è la cosa migliore da fare. Tre anni fa quando ho riscoperto il piacere di questa pratica ho provato un immediato beneficio. Ho ricominciato a dormire. Mi bastano e avanzano sei ore di sonno per stare bene. Eppure quando sono particolarmente sotto stress, da buon iper-efficiente, smetto di dormire. La notte diviene un tempo per macinare pensieri, progetti, vendette, conquiste e paure. Lo Yoga mi ha suggerito una memoria del respiro, una sorta di meccanica che sul mio corpo è infallibile. Un’onda di ossigeno che attraversa il sistema muscolare e nervoso e mi restituisce a me stesso, mi ripulisce dal lavoro fuori controllo del mio emisfero destro. Fino alla quiete, fino al sonno. Questo svuotamento non è un abbandono, non lo percepisco come un annullamento. E’ comunque uno stato di presenza. ma è una presenza mutata, profonda. Una presenza che non si manifesta con il solo movimento ma anche con lo standby dei sensi.

Inizio la pratica, mi collego via web, oggi la maestra ci da dentro con i passaggi sulle braccia. E’ faticoso ma mi concentro solo ed esclusivamente sul respiro. tutto il corpo è caldo. Inizio subito a stare bene. La schiena prende mobilità e le vertebre il loro ossigeno Il volto diventa un petalo posato sulle ossa del cranio. La pratica si conclude con il solito Shavasana. La dimensione del non spazio e del non tempo. Il corpo registra ogni informazione e dona gli effetti di questa pratica millenaria.

Ed è in questo momento che mi succede per la prima volta qualcosa di strano. Quando ad un certo punto la voce della guida mi suggerisce con dolcezza di riattivare le mani, aprire gli occhi e portarmi gradualmente seduto provo qualcosa di inaspettato.

Non so se ho voglia di tornare. Non sto dormendo, sento che la guida sta dando nuove istruzioni, ma non mi muovo. Sento la vita intorno a me. I passi di Greta, la bimba del piano di sopra, sento la ventola in bagno che smette di tirare aria improvvisamente, sento il giro del sangue nel mio cuore, come un nuotatore che va su e giù da una piscina olimpionica rossa. Sento tutto, non sto dormendo. Ma non mi muovo comunque. Non ho voglia di tornare. Penso solo a questo. Sono immobile. Il corpo è semplicemente un solido appoggiato a terra, aziono il pensiero senza azionare la macchina. Non provo nessun dolore, nessuna paura, nessun tipo di ansia. Solo pensiero di quiete e pura forma. Si sentirà così una scheggia di smeraldo caduta da un orecchino sull’asfalto? Si sentirà così il corallo in fondo al mare? Si sentirà così un filo d’erba? Si sentirà così una nuvola quando non c’è vento? Non so se voglio tornare. Non so se me la sento di riaprire gli occhi. Potrei restare in questo luogo per sempre. Potrei vivere per sempre senza paura. In questo luogo non bisogna essere preparati, efficienti, performanti. In questo luogo si sta bene. Essere o non essere… dormire, forse sognare, forse vivere come dovrei vivere… Con il tempo delle pietre, dei minerali, del vapore, delle gocce. Semplicemente.

Per questo non so se ho voglia di tornare. Urtare contro gli altri, pietrificarmi davanti all’ingiustizia, ri-orientando di ora in ora la violenza delle parole, o la loro assenza, mortificarmi per l’assenza di empatia, tormentarmi di ricordi che vorrei solo disegnare su un foglio A4, da piegare, imbustare, spedire a chi di dovere.

Esito ancora, esito nella minestra dello stare. La mia stanza dello scirocco. La stanza dove stare e aspettare che il vento dell’Africa passi. E riprendere la vita. Come i pomeriggi d’estate a casa quando il mondo era in standby. Finisce la pratica. Il video si blocca. Lo percepisco. Non sto dormendo. Ma non mi muovo. Forse è questo la morte? Il desiderio di non tornare? Il cambio di residenza del pensiero? Dormire, forse sognare.

Un attimo di silenzio. Poi provo un pò di paura. E se stessi davvero lasciando tutto? E se perdessi la strada del ritorno? E se fosse troppo tardi per tornare? Visualizzo le mie mani, penso di aver capito dove si trovano. Ai lati del corpo. Devono essere quelle due zattere rosa con i nodi delle nocche color peonia poggiati sul pavimento. penso di averle trovate. Devo solo muoverle. Mi sembra l’atto più faticoso della mia vita. Che strano, sono un danzatore, so come muovere il mio corpo. Come ho fatto a dimenticare un principio così elementare? Ma persino questa paura di non tornare ha qualcosa di piacevole.

Poi con uno strappo violento sparpaglio le falangi sul pavimento, ribalto le mani… come a galleggiare. Poi rompo la linea retta delle braccia e i gomiti tornano rotondi.

Tra le ciglia intravedo una luce color verde azzurro.

Sono tornato, mio malgrado. Ma non so se sono pronto.

Danza e Omofobia

(dal film GIRL)

C’è più omofobia nella danza di quanto si creda.

Sembra paradossale perché nell’immaginario comune il mondo della danza è attiguo al pianeta degli unicorni. Ballerini e parrucchieri si sa…

Eppure, chi ne fa parte, se è davvero sincero, sa di cosa sto parlando.

Mi riferisco ad un ricco vocabolario omofobico e transfobico che nasce dai cattivi docenti, si trasmette tra danzatori e danzatrici e si sviluppa nel mondo del lavoro.

Proprio quando un ragazzo o una ragazza pensano di aver quasi superato il pushing sociale che li vedrebbe incasellati nel sistema binario maschio=calcio e femmina=bambola, proprio quando scelgono l’arte come linguaggio d’espressione e come vita, proprio quando dovrebbero sentirsi liberi, ecco proprio allora, inizia un nuovo incubo.

Non mi voglio soffermare sulla violenza psicologica di un’arte, quella della danza, diventata schiava di uno specchio preso in prestito dalla moda e di un virtuosismo preso in prestito dallo sport. Deformazione appunto, non danza. Lo specchio nella danza è un orpello novecentesco occidentale. E lo sport non è danza.

Non mi voglio soffermare sulla crudeltà nel poter escludere chi non è ritenuto fisicamente idoneo. Diritto di quest’arte, che proprio in quanto arte non dovrebbe escludere nessuno.

Mi soffermo su questioni più banali. Ad esempio, ci siamo mai posti il problema dei body delle ballerine? Il body umilia tutte coloro che non hanno ancora fatto un percorso di accettazione di sé. Distrugge l’autostima. È una lente d’ingrandimento sui difetti, sulle

imperfezioni. È uno veicolo di fallimento. È un simbolo, un’arma che può escludere dalla danza classica le adolescenti transgender. Chi lo ha stabilito?

Mi soffermo sulle frasi pronunciate dai maestri di danza ai ballerini adolescenti: “Mentre danzi devi sembrare maschio! Devi sembrare uomo a prescindere dal tuo orientamento sessuale!”

Chi lo ha stabilito? Che io sappia un corpo che danza, se danza bene, può bastare!

Te lo dicono tutti giorni. “Non svolazzare, non sculettare, pompa bene i muscoli per le prese …” perché si sa che l’uomo solleva, la donna viene sollevata. Che novità! Un po’ di patriarcato anche tra i tutù non guasta mai! Te lo dicono per il tuo bene. “Sai, potresti non lavorare se quando danzi sembri gay!”

Mi riferisco al mondo hip hop italiano. Pare infatti non esistano gay nel mondo hip hop. Non esiste l’omosessualità maschile nella cultura hip hop italiana. Che strano! Ai gay non piace l’hip hop?

Mi riferisco ai maestri che dicono alle ragazze di ballare da femmine. Come balla una femmina scusate? Mi sono perso qualcosa? Deve diventare un veicolo per il piacere visivo di un pubblico maschile? Quindi una donna non può che ballare da donna?

Mi riferisco a chi sostiene che la cultura voguing sia solo per i gay e per le donne queer. Perché questo vorrebbe dire che la danza classica è solo per nobildonne e cavalieri. Che paura!

La letteratura per anni ha assimilato la parola ballerina alla professione della puttana. Come se fosse un disonore fare la ballerina, o la puttana.

Il mondo della danza è incredibilmente ammuffito. Noi non siamo pronti per le nuove generazioni di ragazzi. Il futuro ha bisogno di classi inclusive, di progetti formativi che oltrepassino i vecchi concetti di genere. Ha bisogno di corpi pensanti, liberi, coraggiosi e imperfetti. Il futuro ha bisogno di cultura, di docenti qualificati e di strutture capaci di superare decenni di torture psicologiche. La danza merita il sorriso, l’orgoglio, il piacere. La danza ha bisogno di classi arcobaleno che sappiano riconoscersi in quanto terra franca, zona libera per creare e generare valore. Generare valore unendo e proteggendo le identità di ognuno.

Fimminaru

Prima di guardare i miei genitali riconoscendoli come genitali, c’è stato un’arco di vita relativamente lungo.

Si sa che il tempo dei bambini non è mai coincidente con il tempo degli orologi.

In quel tempo haribo, gelatinoso, appiccicoso, colorato, fluorescente i miei genitali avevano la stessa importanza delle mani, dei piedini, degli angoli della bocca, dell’incavo paffuto delle ginocchia. Era il tempo in cui tutto ciò che stava intorno era “le americhe” di Cristoforo Colombo. Niente di più di un territorio in cui lasciare un mattonino Lego per marcare il territorio. Scoperta. Una porta che sbatte al segreto gioco di correnti, un sifone dell’acqua piovana al quale avvicinare l’occhio destro, il fondo di un bicchiere usato come lente per guardare i grandi (per scoprirli realmente piccoli). Era il tempo in cui le desinenze nei nomi erano un di più che se c’erano bene, altrimenti pace… In quel tempo un asciugamano in testa bastava a farmi sentire fluttuante, importante, “vellutante” come Romina Power. Del resto a cosa mai può servire un asciugamano di spugna se non a inclinare la testa come solo la regina del ballo del qua qua sapeva fare.

In quel tempo cercavo tessuti leggeri da mettere sulle tute di flanella, sui pigiami che facevano i pallini. Dallo strofinaccio da cucina al babydoll era un attimo. Mettevo una cosa sull’altra come un venditore di tappeti nel mercato di Marrakech. Oggi parlerebbero di sovrapposizioni, vestirsi a cipolla, una deformazione dello street style. Per me quattrenne era quel poco che bastava per sentirmi giusto. Attribuito a me stesso.

Nel cortile al quale si affacciavano tutte le finestre delle case popolari mi bastava fare un cenno alla bambina della casa infondo, Paola. Lei si avvicinava. Un minuto per giocare sugli scalini di casa. Poi sparire.

“Signora, ho visto la Paola con una bambina vicino la chiesa della Santissima Ausiliatrice!” – rispondevano i passanti a mia mamma che disperatamente mi cercava per tutto il quartiere. (Non esisteva Chi l’ha visto?) E mia madre piangendo rispondeva: “Quella bambina è mio figlio!”

Ci ritrovarono a passeggiare, come Thelma e Louise delle case popolari, senza alcun peso. Senza alcun dubbio di essere sbagliati. Lei con gli zoccoli di legno e le calze bucate io con i completini sexy di mia madre sul pigiama.

Se hai il pisellino ti devi comportare da maschio. Se hai la patatina ti devi comportare da femmina!

E se non sai di avere né l’uno e nell’altro?

Non accadde mai più. Fine del mio mini Pride.

“Fimminaru!” – si dice dalle mie parti. Per indicare il maschio a cui piace stare in compagnia delle femmine. Sospetto gay, persona da riordinare. Detto da nonna però sembrava un complimento dolce. Come se dietro ci fosse un orgoglio, non troppo urlato, nell’avere un nipote che con le “fimmine” sapeva addirittura parlare.

Detto dai compagni di classe era già diverso. Alle elementari quella frase era un bisbiglio, forse una piccola macchia su una tovaglia, niente di più. Alle medie il peso era ormai insostenibile. Un secchio di cemento indurito attaccato con lo spago sulle zampe di un pettirosso.

“Lu Fimminaru” – diventò un insulto soprattutto quando arrivò l’articolo lu. L’articolo maschile associato all’aggettivo derivato dalla parola Fimmina creava distonia. Qualcosa da evitare, da scongiurare. Nella sostanza non cambiava di molto la mia vita. Ma nel mondo intorno qualcosa del mio semplice “stare” era percepito come disturbante. Eppure nei miei look di undicenne dei babydoll di mamma non vi era più traccia.

Qualcosa di quell’espressione alludeva ai miei presunti caratteri sessuali. Ed è strano, ma pareva che chiunque, nel paese, a scuola, al catechismo si sentisse autorizzato a definirmi sessualmente. Tutti tranne me.

Chi può definire chi, sessualmente?

Il mondo haribo si divise nettamente in due: io e le bambine, gli altri.

Io, fimminaru, con le bimbe ci parlavo, ci giocavo, mi confidavo. Come facevo con mamma e con mia sorella. Come la cosa più naturale del mondo.

Nessuna di queste bambine mi ha mai chiesto un certificato di attribuzione sessuale. Sono sopravvissuto comunque e bene.

La mia coscienza genitale è venuta un pò più tardi rispetto ai miei compagni di scuola. Quando ho capito che i miei genitali erano uno strumento di potere sugli altri tutto ha cominciato a prendere un senso. Quindi a spegnersi. Potevo farmi desiderare, potevo sottomettere, potevo promettere, potevo avere un prezzo di mercato differente. Potevo addirittura disporre di due mercati. Potevo finalmente sentirmi superiore alle femmine, potevo alludere alla caccia, potevo accedere agli spogliatoi maschili e avere “vivaiddio” un argomento di scambio con loro. (Certi gay possono essere i peggiori maschilisti e detentori del potere patriarcale. A volte peggio dei loro nemici amici etero.)

Proprio in quel momento in cui finalmente con il pene in una mano, e la pinzetta delle sopracciglia nell’altra, potevo sentirmi padrone del mondo. Come Miss Italia con il suo scettro da reginetta, ho provato un urto di vomito tale da dire, no. Non mi va. Resto fimminaru ma stavolta sono io a deciderlo.

Non mi interessa il maschile. Mi annoia. Preferisco gli animali. A volte mi fanno sorridere ma come mi fanno sorridere i piccioni in Duomo. Mi attraggono sessualmente solo in foto. Già se parlano, mi viene difficile l’erezione. Mi basta e avanza l’uomo con cui vivo da 18 anni. Che peraltro è molto simile a me. Ma questo è amore. Un capitolo a parte.

Non amo indagare sui loro pensieri. Orgogliosamente fimminaru oggi mi ritrovo a parlare con le mie allieve. Bellissime. Parliamo di femminismi. Parliamo di potere alle donne. Loro hanno coniato un neologismo: PAURO. Per indicare la paura di molti maschi. Certi maschi hanno una paura diversa. Genitale. E come un paguro (da qui l’assonanza), come un pene che torna molle, si chiudono, si ritirano e non trovano con il femminile (dentro e fuori di loro) una sincera relazione umana basata sulla coesistenza.

Geniali le mie allieve…Con loro sto così bene…

E mi viene in mente Paola.

Chissà se si è sposata, se ha avuto figli, se è chiusa in casa come me durante la pandemia.

Chissà se ha trovato un’amica con cui parlare. Chissà se si ricorda di me… Chissà come ha educato i suoi figli maschi. A cinque anni mi sono trasferito in un’altro quartiere. Ogni trasloco da allora in poi è stato un susseguirsi di Lego disseminati qua e là.

Lei, mai più vista.

Attaccamento

Tre urti e torno indietro –

Non conto i giorni della quarantena.

Attaccamento. Mi dicono di trovare una routine durante l’isolamento. Di restare incollato all’agenda e al planning settimanale. Cazzate! L’isolamento non è un problema per me e non lo è mai stato. Questo non è un isolamento. Questo è uno schivarsi per paura del contagio. È un mettersi al riparo da un mostro che ti fa tossire e poi ti toglie l’ossigeno e ti fa soffocare. È un tentativo di salvarsi stando immobili. Fingendoci già morti. Devo dire che in questo molti dei miei colleghi sono veri talenti. Sembravano morti da prima del virus.

Dal livello di istamina del mio sangue capisco che è Aprile inoltrato. La primavera provvede puntualmente alla congestione del naso. Il cocktail letale di pollini non mi farà dormire fino ad Ottobre.

Molti miei colleghi del luccicante mondo dello spettacolo non hanno mai parlato di politica, di diritti, di etica professionale e adesso, come d’incanto, hanno affittato a ore il costume di Martin Luther King. I have a dream urlato dall’ennesima IG-Story con il filtro contouring. Si ribellano al sistema, promuovono video-campagne di protesta, challenge dì 24 ore che scadono alla stessa velocità di un insalata in sacchetto. Hanno semplicemente paura. E mi spiace dirlo, però io spero che la maggior parte di loro la conosca veramente un po’ di sana e autentica paura. Perché questo significherebbe avere rispetto e premura, ascolto ed empatia, non solo nei momenti di emergenza, ma sempre. È come fare gli auguri a una donna solo l’8 di Marzo. Poi dimenticare il resto dell’anno che una ragazza non può prendere i mezzi pubblici di sera, che il suo stipendio è più basso dei suoi colleghi uomini e che se resta incinta è una cazzo di problema. Come ricordarci che siamo una repubblica solo quando vinciamo i mondiali di calcio. Non funziona così.

Capisco che è domenica dal fatto che non suona la sveglia. Ho

sempre freddo anche in estate e dal mio balcone non vedo alberi di pesco, per cui è il mio naso a raccontare il mutare delle stagioni.

Riconoscere la storia di un popolo dalla sua paura. La paura è necessaria. Il dubbio di regredire, di perdere i diritti umani, di dimenticare le regole dell’educazione civica è necessaria a quello stato di allerta che fa evolvere una democrazia. Non puoi ricordartelo solo ora che la tragedia ha sfiorato il tuo culetto scolpito al Club Virgin in Corso Como… non funziona così!

Come faccio a sapere dove sono rimasto? Sono maschio o femmina? Sono vivo ma non sono sicuro di poter dare un orario preciso. Ora del decesso? Non ho mai portato l’orologio nella mia vita. Mi so orientare anche al buio. Era un gioco che adoravo fare da piccolo. Girare per casa senza accendere la luce. Al terzo urto contro qualcosa dovevo ricominciare da capo. Senza attaccamenti. Divertentissimo questo gioco. Titolo: Anna dei Miracoli. A che ora ho iniziato a vivere?

Portare l’orologio mi innervosisce. L’orologio a lancette è fuori discussione: sento esageratamente ogni movimento degli ingranaggi e non mi sento sincronico. Non mi sento andare a tempo. Mi deconcentro e provo a velocizzare o rallentare il mio battito. Con risultati fallimentari. È fuori dalla mia portata. Ho provato l’orologio anni ‘80, quello a cristalli liquidi. Trovo sia un oggetto cool! Ma come ogni braccialetto dopo cinque minuti finisce nella tasca di un cappotto. Mi pesa. E comunque controllo l’ora dal telefono. Tempo inutile.

Attaccamento inutile. Non sei credibile se ti arrabbi ora che tarda ad arrivare il tuo sussidio di 600€ dello Stato. Quel sussidio è come un ciuccio per un bebè. Ti farà stare zitto per dieci giorni poi ti sembrerà inutile! Duro. Come la paura.

Mio padre, quando era un perito elettronico di successo e lavorava in Africa, tornava in Italia con un carico di orologi pregiati da regalare ai famigliari. Con quel gesto allontanava dagli altri e per un tempo sufficiente alla sua ripartenza, il sospetto di essere un pessimo padre e un irrisolvibile uomo. Forse per questo motivo diffido da chi ama fare troppo regali. Penso che, libera dal dovere di commento del dono fatto e ricevuto, la mia conversazione regga ugualmente.

Prendere o perdere tempo?

Come avete fatto a vivere fino ad oggi? Siete terrorizzati dal dover ricominciare da capo. È ovvio che sarà così. Siete spaventosamente attaccati alla vostra vera o millantata carriera. Vi sottovalutate fino a questo punto? Avete bisogno di regalare un orologio per dare sostegno alla vostra esistenza? Avete bisogno del vostro corpo turgido, delle foto esotiche, del food porn, delle frasi in inglese e del pensiero di provincia per sentirvi vivi?

Attaccare per attaccamento ad una vita che non c’è più.

Per anni ho provato rabbia, invidia e rancore. Generalizzato. Per il solo fatto di non essere cresciuto in una famiglia normale ed equilibrata. Mai avrei pensato che quel sentore di baratro costante, quella rassegnata predisposizione alla precarietà, quella montagna russa emotiva fosse una preziosa eredità. Il migliore lascito.

La mia paura basale ha reso possibile il cambiamento continuo. Il cambiamento è inevitabile e sotto alcuni punti di vista è delizioso! L’attaccamento è agli antipodi dell’evoluzione.

Sono certo di potermela cavare anche senza il mio status di direttore creativo di una piccola azienda o di coreografo part-time o dì docente tra milioni di docenti. So lavare i piatti e mi piace farlo. Le mani in ammollo sono un piacere se l’acqua è fresca. So cucinare, mettere in ordine un magazzino, so parlare al telefono, so vendere un prodotto, so creare un foglio di calcolo. Son sicuro che con la mia ambizione, la pazienza, la resistenza agli insulti che ho maturato grazie ai bulli delle medie prima e grazie ai creativi delle agenzie di moda e pubblicità dopo, saprò crearmi una nicchia ovunque e portare a casa i soldi necessari.

Saprò cavarmela con o senza soldi. Con o senza sussidio. Con o senza cassaintegraziome.

Soffro di attaccamenti ben peggiori. Il gioco è sempre lo stesso… tre urti e si ricomincia da capo.

Così si allena il futuro.

26 Marzo


Ore 16:30. Mi preparo per andare a fare la spesa. Non esco da 15 giorni. Dall’ultima spesa.

Fuori fa freddo, nonostante sia già primavera. Il meteo dice che porta neve. Mi preparo senza trascurare nessun dettaglio. La lista è stata compilata un giorno fa. Divisa per scaffali, priorità ed extra. Una lista per noi, una per i parenti. Marco scende nel box a prendere la macchina, io faccio tappa nel locale della raccolta differenziata. I guanti di lattice mi fanno sudare le dita. Ho una mascherina che mi stringe sulle orecchie, mi sembra di soffocare.

Faccio i primi due passi oltre la porta di casa e già mi rendo conto che è tutto molto difficile. Mi si appannano gli occhiali. Il respiro si fa corto.

Nero. umido, verde, bianco, giallo. Faccio due viaggi. Guardo la maniglia del locale spazzatura, quando apro e quando chiudo. Arriva Marco. salgo in macchina guardo dove poso le mani. Il viaggio, appena 4 minuti di strada, sembra eterno. Se ci ferma la Polizia diremo che stiamo facendo la spesa per due diversi nuclei familiari. La verità. Non ci ferma nessuno. Il cielo è bianco. Stento a ricordare. Com’è che non ricordo più Milano con le persone? Non ricordo. Negli ultimi 30 giorni nell’angolo di via sul quale danno le finestre di casa non si vede nessuno. Non c’è più nessuno. Non vedo nulla anche per via degli occhiali appannati. Che fastidio gli elastici dietro le orecchie! La mascherina appoggia sul naso e sembra corrodere. Chiedo a Marco se prova lo stesso fastidio. Mi dice che è normale.

Parcheggio, monetine, due carrelli, 45 minuti di fila al gelo. Ci dicono che dentro misureranno la febbre. La febbre ci verrà comunque, per il freddo. Facciamo la fila distanziati, silenziosi, come ad una fiaccolata ma senza fiaccole.

È già un mese che Emanuele è morto. Un mese. Se avesse rimandato il suicidio di almeno un giorno avrebbe assistito al blocco delle prime zone rosse e forse avrebbe aspettato. Avrebbe capito che il gesto violento che stava per fare sarebbe stato ancora più inutile. Perché non solo nessuno lo avrebbe accompagnato a un funerale o pseudo tale, ma anche perché nessuno lo avrebbe minimamente ricordato. Nessuno avrebbe provato i sensi di colpa. Abbiamo tutti così tanta paura del contagio che ricordiamo a stenti ciò che è avvenuto un attimo prima del blocco. Un attimo prima. Se solo avesse rimandato di un giorno. Emanuele e il suo tempismo del cazzo.

Il freddo taglia all’altezza dei reni. Non esistono più i giubbotti di pile di una volta. 17:45. Entriamo. Niente febbre. Via con la spesa. Frutta. Verdura. Ho caldo, ma come? Prima si gelava. Formaggi, latte vegetale, hamburger di barbabietola. Via la sciarpa. Uova. Scatolame. Ho i brividi, sudo freddo. Via gli occhiali. Non vedo comunque. Ritorno sui miei passi. Ah già, ero già passato da qui! Mi tremano le mani. Mi trema il palato. Troppo alto il volume degli annunci. Casse vuote, casse piene. Mi trema il mento. Pesce. Detersivo. Ammorbidente. Insopportabile la mascherina, il caldo, il freddo, il sudore, la pelle, gli odori oggi sono esagerati. Chi ha spruzzato tutto questo profumo!? Perché le persone mi guardano con occhi strani? Ah no, sono io che guardo gli altri in modo sospetto. Che ore sono? Chissà se sotto la mascherina sorridono! Sotto la mascherina forse sorridono. Gli occhi non danno indizi. Quanto manca? Non toccare il cellulare Davide! Hai guanti di lattice sporchi. Contaminati. Tutto è contaminato. Mi gratto la fronte poi il naso, poi il petto, mi prude il cuore, di nuovo la fronte, le orecchie, via un elastico, che prurito assurdo. Mi fanno male i capelli. Marco mi si avvicina con il suo carrello. Mi chiede se va tutto bene. Gli dico che non sopporto la mascherina mi manca l’aria. Mi dice che è normale. e poi mi dice “Smettila di toccarti la faccia!” Mi allontano, devo toccarmi e non farmi vedere che mi tocco. Ok, il volume del supermercato è altissimo. Ma il cuore? Non sento il battito. Non dovrebbe essere il contrario?

Emanuele si era organizzato. Quanto tempo ci ha messo per fare il nodo? Un sabato sera. Solo in casa.

Ho la nausea c’è troppo profumo. Strappo via la mascherina un secondo prima di vedere buio. Le dita sono lesse nei guanti di lattice. Respira Davide! Non vorrai mica inaugurare questo nuovo ciclo di attacchi di panico proprio qui, nella quarta corsia dell’Esselunga di via Adriano? Ne mancano ancora 10 di corsie prima di finire la spesa. Fanculo. Apro le porte! Spalanco me stesso e benvenuta paura, eccoti! Ho un attacco di panico. So come gestirlo. E allora comincio a gestirlo. Organizzo un tour per il mio corpo. Un metro e ottantacinque centimetri per settantacinque chili di Davide. La paura si diluisce. E piano piano, così come è entrata, così è uscita.

Ho percepito il rumore della caduta di Emanuele. Era alto come me, pesava quanto me. Quanto tempo ci è voluto prima che il cuore si fermasse?

Dopo un attacco di panico ho male all’umore per almeno 48 ore. Indolenzito come dopo una lezione di cross-fit. E’ l’acido lattico della mente. Si aspetta che passi.

Funziona così.

Funziono così.